nuove dal friuli e dal mondo

Manzano, 22 Aprile 2005
Sala Rappresentanza - Palazzo Municipale

Il dott. Diego Lavaroni ha presentato il libro di Danilo Urbancig
 UN FRIULANO A MAUTHAUSEN
Autobiografia ricostruita da Stefano Sigismondi
 

Questo libro racconta la storia di un uomo semplice, senza grandi studi, che da ragazzo viveva felice nella sua campagna friulana, povera di risorse ma ricca di quel sano humus, da cui nascono i figli della Madre Terra nutriti di buoni sentimenti. Mosso dall'istinto di fare del bene, senza chiedersi perché e percome, il ragazzo diventa la staffetta dei partigiani friulani. E di colpo si trova catapultato  nell'inferno di Mauthausen. Per un oscuro disegno del destino egli riesce a sopravvivere. Forse per testimoniare con la sua esperienza dolorosa che la Storia non la fanno solo i principi e i condottieri, ma anche i poveri ragazzi come lui, cui troppo spesso viene negato dalla Storia il diritto di vivere felici.


 Il dott Lavaroni e Danilo con la moglie
 
 

UN FRIULANO A MAUTHAUSEN 
(Diego Lavaroni)

            In questa biografia scorre la vita di Danilo ma anche la vita di una comunità, quella manzanese. Si vede sullo sfondo un mondo antico che, una volta finita la guerra, si dissolve. Infatti, si fa riferimento a persone d’altri tempi, come la gran dama della filanda, svanita nel limbo di un mondo in dissoluzione. Alle filande si sostituiscono le fabbriche di sedie. È la descrizione di una comunità povera, tanto povera che il bisnonno fu affidato, sui gradini dell’abbazia di Rosazzo, a mani caritatevoli che potessero prendersi cura di lui. È un periodo durante il quale i sottani, i poveri diavoli,  fanno fatica a sbarcare il lunario.  
            Il padre Antonio fu emigrante in Germania, Austria e Africa. Suonatore di fisarmonica, suonatore di musiche popolari nelle feste di paese. Il bambino Danilo è estasiato dai concerti del padre e dice che ha “sempre negli occhi la sua espressione seria quando, durante le sagre, suonava con trasporto le canzoni più in voga dell’epoca…. (p. 12)
            La mamma Elena però lo iniziava all’avventura e al lavoro (raccogliere erba per i conigli, far legna); la campagna era un universo sterminato pieno di vita e di mistero…. (ibidem)
            A sei anni però finisce quell’epoca celestiale e inizia la scuola. I primi tre anni a Oleis, la quarta e la quinta a Manzano.
Quando andava a scuola a Manzano i contadini erano nei campi e non degnavano di uno sguardo quello studentello. I bagni nel Natisone. Pattinare e pescare a mani nude. Ritornare sulla bicicletta del papà, dalla fabbrica di sedie. Sono emozioni forti, ancora vive.
            Con la fine della quinta finisce anche il tempo dei giochi ed il piccolo Danilo comincia a riparare le gomme bucate delle biciclette. Quando il padre torna dall’Africa fa il venditore ambulante di croccanti e amaretti nelle feste e nelle osterie e Danilo lo aiuta. Poi, il padre fa il fornaciaio e Danilo diventa apprendista calzolaio. Il cjaliar, dice Danilo “era un mestiere importante… avere un paio di scarpe buone era indispensabile come oggi avere un’automobile e il lavoro non mancava”. … “Erano pochi infatti quelli che si potevano permettere delle scarpe nuove e per lo più la povera gente si doveva arrangiare facendole riparare continuamente”. (p. 24)
Nel ’41 lavora nella bottega rinomata di Tavasani a Cormòns ed è qui che appare la vestale bionda sposata ad un padrone di filande. (p. 28)
            Nel ’42 il padre Antonio lavorava in Germania e aveva modo di osservare treni pieni di prigionieri che partivano per i campi di lavoro per località imprecisate. Papà Antonio non ha simpatia per Mussolini e questo atteggiamento rischia di procurargli dei guai. 
            Qui, ha inizio la vicenda che porterà Danilo a Mauthausen. Già prima dell’otto settembre Danilo ‘aveva fatto amicizia con dei partigiani che si stavano organizzando nei paesi del manzanese’. E uno di questi, Riccardo Caròn andò dagli Urbancigh e parlò col padre e con Danilo.
            Nel gennaio del ’44 richiamo per l’arruolamento, sei giorni di caserma, senza direttive, esercito allo sbando, diserzione. Reclutamento a Poggiobello (villa de Marchi) nel battaglione Manin rinominato “Verrucchi”.
Danilo diventa la staffetta Jim e si occupa del trasporto di vivande, vestiti, ecc. per le brigate operanti tra il Collio e le Valli del Natisone, “ma soprattutto di delicati e vitali messaggi tra le varie postazioni partigiane”. (p. 30)
Qui, naturalmente, cominciano i problemi di tutte le staffette. Un’epopea che solo apparentemente è meno rischiosa di quella dei combattenti. Prima di tutto le staffette devono dissimulare la loro presenza. Sembrare soggetti inoffensivi e assolutamente estranei alla resistenza. Usare documenti plausibili, avere sangue freddo e ottima capacità di affrontare situazioni rischiose, disarmati ed anche di difficile e immediata soluzione. Non bastano il fegato, l’abnegazione, la volontà di superare gli ostacoli se non si è in grado di mandar giù un foglio di quaderno piuttosto voluminoso. (p. 31) 
            Una ragazza fatta scendere dalla corriera da un commando tedesco indica ai soldati un partigiano. Danilo ritroverà poi quella ragazza davanti al plotone d’esecuzione. In quel frangente don Erino D’Agostini (Dalla montagna a Dachau) “Unio” di cui Danilo ammirava la forza morale, la sostenne nel momento fatale.
            Assistere alle fucilazioni di traditori era una doverosa incombenza, ma una tragica presa di coscienza. Anche quelle morti suscitavano una profonda commozione. Ma, era in gioco la vita e dunque quello scontro fratricida era inevitabile. “Chi non era con noi era contro di noi! Le rappresaglie tedesche erano di una ferocia disumana e non lasciavano nel nostro cuore molto spazio per la pietà verso chi ci aveva tradito!” (pp. 34-35)    
            Anche papà Antonio meriterebbe un riconoscimento dalla comunità di Oleis che egli aiutò a salvare da una probabile rappresaglia dopo uno scontro tra partigiani e tedeschi. “Papà Toni riuscì a convincere il tedesco che si trattava di un passaggio occasionale dei partigiani e il paese fu salvo”. 
Qualche tempo dopo, nell’agosto del ’44, avvenne la grande battaglia di Nimis, nella quale Danilo prese parte, anche se non si trovò coinvolto nel cuore dei combattimenti. A quella battaglia seguirono parecchie rappresaglie e durante un rastrellamento il padre venne fermato e condotto alla sede del comando tedesco, a Buttrio. Al suo posto doveva esserci Danilo. Si trattava evidentemente del tentativo ricattatorio di colpire l’uno per l’altro o di costringere Danilo a consegnarsi.
           Danilo decide di consegnarsi e, da quel momento la sua vita segue un corso nuovo e terribile. Il padre viene rilasciato convinto che anche Danilo, grazie al lasciapassare salvifico, sarebbe stato liberato.
     Le procedure sono scarne, schematiche. “Sei tu Danilo Urbancig?” Alla risposta affermativa viene condotto via. Poi, Danilo e gli altri vengono condotti alla caserma dell’VIII Alpini, a Udine. Per cena dei pezzi di anguilla cruda.
       Durante l’interrogatorio viene ammessa la madre di un partigiano fucilato alle prigioni di Udine. L’ufficiale, nella più assoluta indifferenza, conferma alla donna che suo figlio è stato fucilato. Come se avesse letto l’orario di partenza di un treno. Si, il treno è partito all’alba, senza alcuna destinazione. Indifferenza, mancanza o rimozione di emozioni. Io credo che questa immagine, documenti in maniera straordinaria, l’orrore di quel sistema.
         Poi, una speranza ed anzi la convinzione che sarebbe stato rilasciato. “Pai, vieni a prendermi!” In realtà la speranza è solo una breve e tremenda illusione. All’alba, bisogna mettersi in fila per tre e raggiungere la stazione. Si intonano cori partigiani. Ammasso nei carri. Poi, la voce del padre. L’abbraccio, una gavetta di pastasciutta e il saluto. “Non preoccuparti, Danilo vedrai che torni presto!” Era il 4 febbraio del 1945; dopo 3 giorni arrivo a Mauthausen. Spoliazione e 10 giorni di quarantena.
         Divisa: ago e filo per cucire il proprio numero: 126912. Punizione per la sottrazione dell’ago servito a cucire il numero. Alla sottrazione dell’ago segue la spietatezza esemplare. Sulle cose minime la grandezza della punizione. Si potrebbe dire che il sistema era assolutamente inflessibile di fronte alle inezie. Le cose impercettibili venivano ingigantite, dilatate in maniera straordinaria. Perché appartenevano ai nazisti. Un ago era più importante di una persona. Se uno non era ariano, valeva niente. Se uno era zingaro, o omosessuale, o paziente psichiatrico o disabile, o comunista, o ebreo, o partigiano, valeva niente. Meno di un ago. 
          L’amicizia con Guido Canziani di Firmano si consolidò una volta ritrovatisi a Mauthausen. Sicuramente, il reciproco sostegno diede a entrambi la forza di andare avanti. Ma, Guido, con cui Danilo fuggì dall’ospedale di Udine “non riuscì mai a superare del tutto il trauma della prigionia”. (p. 66)
         Il 5 maggio ’45 la liberazione a opera degli americani. Il 14 giugno, finalmente a casa. Un anno in ospedale, a Cividale e un altr’anno di convalescenza. Ritrovare Guido: “Danilo, cosa ci fai tu qui, in America?” Non tutti quelli che tornarono dai lager riuscirono a ritrovare anche la vita. (p. 74) Nel 1954 a 53 anni muore papà Antonio. 
         Danilo Urbancig è un uomo semplice che mi ha fatto pensare a come deve essere stato dolorosamente complesso per un uomo che guardava alla vita con semplicità, il marchingegno travolgente e spietato che l’avrebbe imprigionato. Imprigionato e poi portato nel lager per lavorare come uno schiavo. Una volta che gli avessero tolto tutte le energie l’avrebbero liquidato. L’obiettivo era quello. Espropriare le persone della loro dignità, della loro essenza umana e poi annientarle.
          Danilo osserva e scopre, sorprendendosi, ma senza smarrirsi, che la macchina diabolica è al lavoro per impedire agli esseri di vivere.           

            Miguel de Cervantes l’autore del Don Chisciotte scrive che il sonno della ragione genera mostri. Quando la ragione dorme o è state neutralizzata da suggestioni potenti o da illusionisti formidabili sicuramente possono emergere le peggiori rappresentazioni degli esseri umani. Eppure non basta. Non basta il sonno della ragione a spiegare l’annientamento. Forse, per spiegare l’immane tragedia è indispensabile far riferimento anche al sonno delle emozioni, alla neutralizzazione dei sentimenti. L’immagine dell’ufficiale che comunica alla madre la fucilazione del figlio, con l’indifferenza che si poteva destinare ad un grano di polvere, è emblematica.
            La testimonianza di chi ha vissuto questa vicenda drammatica è importante. Sono importanti le testimonianze di chi ha vissuto, combattuto, sopportato queste vicende disperanti. Sono importanti non tanto per lasciare aperta una ferita terribile e spesso insanabile. Sono importanti per contrastare le mistificazioni, le manipolazioni della storia. Ci sono sempre stati i negazionisti, coloro che negano la shoah, i massacri, l’esistenza dei campi di sterminio. Ma, le persone che hanno vissuto sulla propria pelle vicende come quelle narrate da Danilo e sono migliaia e migliaia, non si possono negare. Oggi, vanno di moda i revisionismi storici. Io credo che sia giusto approfondire, discutere, correggere, ampliare, integrare. Ma, non si possono mettere sullo stesso piano vittime e carnefici. Non possiamo mettere sullo stesso piano coloro che sono passati attraverso i camini e coloro che li hanno massacrati. Non si possono oltraggiare le vittime del nazifascismo. Anche per questo le testimonianze, come quella di Danilo Urbancig, sono estremamente importanti. 

MANZANO, 22/4/05


...il pubblico in sala...


 

     Non vedevo Danilo Baschìn dopo tantissimi anni, da quando agl'inizi degli anni '50 mi capitava di transitare o fermarmi a Oleis presso la sartoria di mio fratello Sergio, che in quel paese... era andato "cuc"...
     Avevo conosciuto Danilo qualche tempo prima (apprezzandone lo spirito allegro e scherzoso), quando dopo le elementari ero alla ricerca della strada intraprendere per il mio avvenire e per un mese circa ho lavorato come apprendista calzolaio nella bottega di Gjovanin Scarpute di Orsaria.
     Fino a quando un mese fa mi è capitato di leggere "Un friulano a Mauthausen", non ero al corrente della tragedia che aveva vissuto quella semplice ed affabile persona, sopratutto pensando che era molto amico di mio fratello Sergio, che a 18 anni aveva imboccato la strada opposta arruolandosi nella RSI. Sebbene nel caos di quei difficili anni li abbia portati ad operare su fronti contrapposti, quando tutto era passato il loro desiderio era quello di vivere il presente, tanto che Danilo ha voluto ricordare Sergio e la loro amicizia, nell'episodio della gita a Sommardenchia e del volo dalla motoretta...
     Mentre Danilo commosso riviveva alcuni passaggi del libro, mi stupivo constatare che quelli che hanno vissuto la storia in prima persona, dopo la guerra si sono riavvicinati ai loro avversari più di quelli che in quel periodo sono rimasti a guardare lontano dai rischi, o di certi storici che si rompono  volutamente le corna l'un l'altro... con il solo scopo di vendere i loro libri...
     Danilo, grazie per l'esempio e la tua lezione di umiltà. Aldo Taboga.

NB - L'intero ricavato dalla vendita del libro (10 €) sarà devoluto al CRO di Aviano.

Organizzato dal Comune di Manzano - Assessorato alla Cultura
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Tel. 0432 754617 - E-mail: biblioteca@comune.manzano.ud.it