nuove dal friuli e dal mondo

Drenchia, 7 Ottobre 2007

Drenchia rivive la battaglia di Caporetto

Abbiamo creato questa pagina, grazie al servizio fotografico di
Giovanni Paoloni (Jenco) ed agli articoli pubblicati su
La Vita Cattolica del 6 Ottobre. 


...figuranti con divise italiane...


...e con divise austro-ungariche...

     UN VERO E proprio libro di storia vivente, un museo all’aperto con figuranti «in carne e ossa» in grado non solo di ricreare fedelmente il clima e l’ambientazione degli accampamenti militari italiano e austro-ungarico della prima guerra mondiale ma che consentirà anche di assistere all’attacco delle truppe austro-tedesche, dopo il cedimento delle linee difensive italiane sul fiume Isonzo. È quanto offre domenica 7 ottobre, dalle ore 10 alle 16 sul monte Kolovrat, in comune di Drenchia (ad appena 30 km da Cividale del Friuli), la rievocazione storica internazionale promossa dalla Pro Loco «Nediške Doline-Valli del Natisone» (info: tel. 338/1260311; www.nediskedoline.it) in occasione del 90° anniversario della battaglia di Caporetto. Iniziata nelle prime ore del 24 ottobre 1917, l’offensiva austro-tedesca ebbe come teatro fondamentale proprio la catena del Kolovrat e il monte Matajur nelle Valli del Natisone, la cui caduta aprì la strada alla rovinosa ritirata italiana oltre la linea del Piave. La rievocazione sarà caratterizzata dalla sua dimensione internazionale.


...l'attacco con il gas (adeguatamente equipaggiati) degli austriaci...


...la rotta delle truppe italiane...

     Interverranno i gruppi «Gardekorps» di Praga (Repubblica Ceca), 2° «Gebirgschutzenregiment» di Nova Gorica (Slovenia), «Sentinelle del Lagazuoi» di Conegliano, e «Per non dimenticare» di Padova.
     A partire dalle ore 10 chiunque potrà entrare negli accampamenti (situati vicino al rifugio Solarie, raggiungibile in auto), parlare con i soldati, osservare da vicino reperti di grande interesse storico e assistere a momenti di vita quotidiana del campo. Si potrà assistere a simulazioni di avvicinamento e taglio dei reticolati avversari, al puntamento dei pezzi di artiglieria, alla predisposizione di una linea di comunicazione con telefoni da campo.
     Dopo il pranzo (verrà allestito un chiosco, a cura dei gestori del rifugio Solarie), alle ore 15 è previsto un momento di grande impatto emotivo e spettacolare: i rievocatori metteranno in scena l’attacco delle truppe austroungariche alle linee difensive italiane.
 
    Ma c’è di più. Sempre dalle ore 10alle 16 si potrà partecipare alle visite guidate (costo 7,5 euro, bambini esclusi) alle trincee fortificate di «Na Gradu», mirabilmente ristrutturate, da dove il ventiseienne tenente tedesco Johannes Erwin Rommel (poi divenuto celebre come la «Volpe del deserto») cominciò la sua lunga e travolgente Avanzata che, lungo i crinali del Kolovrat e del Matajur, segnò le sorti della «disfatta di Caporetto», per fermarsi poi solo a Longarone sul fiumePiave. Una ghiotta anticipazione, che permetterà di visitare con una settimana di anticipo questo nuovo «museo all’aperto» realizzato dalla Fondazione Poti Miru di Caporetto e che verrà ufficialmente inaugurato domenica 14 ottobre alle ore 11. A Caporetto le commemorazioni continueranno poi anche sabato 20 ottobre, alle ore 15, con un concerto delle bande militari delle sette nazioni che videro i loro cittadini impegnati sul fronte dell’Isonzo, e con l’apertura di una speciale esposizione al museo della Grande Guerra.
     La commemorazione dei 90 anni della battaglia di Caporetto cadono in un momento estremamente significativo. È ormai certo, infatti, che prima di Natale cadranno definitivamente i confini tra Italia e Slovenia e si realizzerà la piena libertà di movimento delle persone tra i due paesi. Un risultato straordinario, se si pensa che appena 16 anni fa, con l’indipendenza della Slovenia, cadde quella cortina di ferro che per quasi 50 anni ha duramente colpito le popolazioni residenti lungo il confine, condannando le Valli del Natisone alla marginalità economica e allo spopolamento. Lungi dall’essere momento di esaltazione nazionalistica e militarista, le rievocazioni del 90° di Caporetto si svolgeranno quindi in un clima di grande concordia e di speranza per un futuro di pace e di collaborazione, da un lato con l’obiettivo di una «purificazione della memoria» da decenni di lotta ideologica e di nazionalismo e dall’altro nel commosso ricordo delle terribili sofferenze patite dai soldati e dalla popolazione civile.

IL 24 OTTOBRE RICORRONO 90 ANNI DALLA TRAGICA  BATTAGLIA DI CAPORETTO

È stato il ministro della Difesa, on. Arturo Parisi, a dare avvio venerdì 5 ottobre a Udine ai lavori del convegno internazionale «Esercito e popolazione: dall’invasione delle terre friulane e venete nell’autunno 1917, alla vittoria e alla pace» che prosegue sabato 6 ottobre a Cividale e Caporetto e domenica 7 ottobre di nuovo a Udine. Così si è aperto il ciclo triennale del progetto «Rileggiamo la Grande Guerra», sostenuto dall’assessorato alle Attività produttive della Regione Friuli-Venezia Giulia, per ricordare quegli eventi nel pieno rispetto dei caduti, per rievocare la storia corretta e sostenere i tanti soggetti  del territorio impegnati nell’opera di recupero dei luoghi che furono interessati dagli eventi bellici. Un progetto che ha l’ambizione di rappresentare il più importante evento italiano in occasione del 90° anniversario della battaglia di Caporetto. In che modo, lo abbiamo chiesto ad Alberto Monticone, storico, presidente del comitato scientifico del convegno.

Le foto che accompagnano questi testi testimoniano la mia presenza nelle vicinanze del rifugio Solarie (Drenchia) dove domenica è stata rievocata la tragica battaglia di Caporetto. La rievocazione ricostruita in dimensioni naturalmente ridotte rispetto alla reale battaglia ha ugualmente colpito il numeroso pubblico accorso. E' triste pensare che dove oggi noi trascorriamo una serena domenica quasi estiva, visto il clima mite, centinaia di giovani hanno dato la vita per la follia della guerra.
In un conflitto no c'è mai chi vince o chi perde; di fronte alla guerra è l'umanità intera che perde la ragione.
Ritengo comunque che iniziative del genere, oltre a far conoscere e riflettere sulle vicende belliche del nostro territorio, siano un mezzo per scoprire alcune zone del Friuli dotate di una bellezza mozzafiato in qualsiasi stagione.
Io e la mia famiglia accompagnati da alcuni amici abbiamo trascorso una piacevole giornata ma nel nostro cuore quando tutto era finito ed eravamo rimasti soli osservando il cippo di Riccardo di Giusto (primo caduto Italiano nella Prima guerra mondiale) abbiamo capito ancora di più il valore della parola PACE.
     Giovanni Paoloni (Jenco).

 L’INSIGNE STORICO ALBERTO MONTICONE
SUGGERISCE COME «RILEGGERE» QUELLE VICENDE 
(A CURA DI ROBERTO PENSA)

Nelle prime ore del 24 ottobre 1917, in una notte piovosa, fredda e nebbiosa, le artiglierie austro-tedesche cominciarono a martellare le linee difensive italiane sul fronte dell’Isonzo, anche con il massiccio uso di gas asfissianti. Lo stato maggiore italiano aveva dato poco ascolto e tardivo ai molteplici elementi che suggerivano l’imminenza di una offensiva su vasta scala degli imperi centrali proprio sul fronte attorno a Caporetto, considerato poco praticabile per la presenza di rilievi impervi difesi da poderose fortificazioni. L’innovativa strategia del nemico, però, preparata con un gigantesco ammassamento di truppe, ignorò la conquista delle cime e puntò allo sfondamento e alla penetrazione nella pianura friulana attraverso il fondovalle delle vallate della Slavia Friulana. La strategia riuscì, e per noi italiani quella dodicesima battaglia dell’Isonzo ha preso il nome di disfatta di Caporetto. Costò, ai soli italiani, 11 mila morti, 19 mila feriti, 300 mila prigionieri, 400 mila fra disertori e sbandati, la perdita di 3.200 cannoni, 1.700 bombarde, 3 mila mitragliatrici, 300 mila fucili, e, al Friuli e al Veneto orientale, un durissimo anno di occupazione austriaca e centinaia di migliaia di profughi. Che cosa ci può ancora raccontare, oggi, quella tragica vicenda? Ne parliamo con Alberto Monticone, presidente del Comitato scientifico del progetto triennale «Rileggiamo la Grande guerra», iniziato a Udine con un convegno venerdì 5 ottobre (programma su www.rileggiamolagrandeguerra.fvg.it). Piemontese di Cuneo, 76 anni di età, Monticone è un insigne storico che ha insegnato nelle Università di Messina, di Perugia, di Roma La Sapienza e Lumsa e nella Pontificia università Lateranense. È stato presidente nazionale dell’Azione cattolica italiana dal 1980 al 1986, deputato dal 1994 e poi senatore dal 1996 al 2006. 

Prof. Monticone, perché a 90 anni di distanza èimportante «rileggere» la Grande guerra? - «È necessario sempre, nella storia di un popolo, ricorrere alla memoria delle proprie radici e del proprio passato, soprattutto di quegli eventi che hanno sedimentato nel profondo dello spirito dei cittadini e della cultura. La rilettura non può ovviamente stravolgere la natura dei fatti, ma può aggiungere dignità e senso ad alcuni aspetti, come le vicende delle popolazioni friulano-venete che hanno subito l’invasione e l’occupazione o sono state costrette alla profuganza. Inoltre si può aggiungere qualcosa alla memoria storiografica, perché fonti e memorie sempre nuove emergono, soprattutto dalle fonti locali e familiari recondite». 

Lo sforzo degli storici per costruire una memoria condivisa della Grande guerra, finalmente liberata dalle incrostazioni di letture unilaterali di stampo nazionalistico, sta producendo gli effetti sperati? - «Una memoria condivisa permette di capire più attentamente ciò che è accaduto, le ragioni, le conseguenze, ma soprattutto di guardare meglio al futuro come cittadini dell’Europa. Per la verità questa idea è già da decenni presente nella storiografia di carattere realmente scientifico e ha prodotto grandi risultati, come testi scolastici redatti insieme da storici di paesi un tempo nemici». 

Oggi in Italia, le vicende, le cause e le vicende della prima guerra mondiale sono conosciute, insegnate e vissute con sufficiente senso critico? - «Nei manuali scolastici queste vicende sono ampiamente trattate, anche se purtroppo raramente l’insegnamento della storia raggiunge il Novecento, oppure lo fa in modo marginale. Mi pare invece di poter dire che in Italia le celebrazioni ufficiali della Grande guerra non siano particolarmente significative sotto il profilo di una lettura con senso critico, con apertura di idee e con valutazioni di ampio respiro, anche europeo. Corrono il rischio di portare avanti tesi strumentali a qualche intenzione culturale e politica particolare riferita al presente». 

È giusto vivere il 4 novembre come una vittoria? Non sarebbe meglio ricordarlo come il funesto giorno conclusivo di una immane tragedia per l’Italia? - «Certamente la classe politica di allora decise l’intervento in una guerra di grandissimo peso per sacrifici, dolori e sofferenze. Se questa celebrazione ha un significato di solidarietà nazionale, di "vittoria" intesa come momento di grande dolore in cui il popolo italiano ha trovato se stesso nella sofferenza e nello sforzo, allora essa mantiene un valore. Se si vuole invece esaltare il successo militare, questo non è giustificato, per tutto ciò che è accaduto nel corso della guerra».

Si può considerare fondata dal punto di vista storiografico, la prospettiva di una cessione pacifica di Trento e Trieste all’Italia da parte dell’Impero asburgico prima del 1915, in cambio di una rinuncia all’intervento nella prima guerra mondiale, come hanno sostenuto alcuni storici sulla base di carteggi tra le due diplomazie? - «Dal punto di vista storiografico non si può dire che l’Austria fosse disponibile a cedere Trento e Trieste. C’è una documentazione largamente acquisita in merito da molteplici studi in Germania, in Italia, in Austria che testimonia come l’Impero austro-ungarico, sotto la pressione diplomatica della Germania, fosse disponibile ad alcune cessioni territoriali in cambio del mantenimento dell’Italia nella neutralità. Tali cessioni territoriali riguardavano certamente una parte del Trentino ma solo uno status speciale di Trieste. Il governo italiano di allora scelse la strada dell’intervento, non fidandosi degli austriaci e vedendo il conflitto come una ideale prosecuzione delle guerre del risorgimento».

Caporetto fu una battaglia vera o un tradimento dei militari verso il loro stato maggiore? - «Le tesi dello "sciopero militare" o del cedimento senza combattere fanno parte di una mitologia alimentata dall’interpretazione nazionalistica e fascista della battaglia. Si preferì accusare settori della politica e dell’esercito, al fine di esaltare poi la riconquista. Tale tesi è rifiutata ormai da lungo tempo dagli storici. Caporetto è una battaglia perduta gravemente, da un lato per la superiorità tecnica-militare soprattutto dei tedeschi, e dall’altro per una grande impreparazione da parte dei comandi italiani».

 Sull’occupazione austriaca del Friuli quali sono le ultime novità? - «Emergono memorie, documentazioni spesso di carattere familiare. Possono rivelarsi importanti, perché messe insieme costituiscono un mosaico che offre una panoramica molto suggestiva e importante sull’atteggiamento delle popolazioni e delle amministrazioni locali verso i militari austriaci e tedeschi. Interessanti sono le testimonianze sul dilemma se accettare l’eroismo civile di restare sotto l’occupazione, o la sofferenza dell’andare in esilio».

 In Italia e in Europa c’è un grande fervore nel restauro delle trincee della Grande guerra e nel proporre rievocazioni storiche degli eventi ad essa legati. Lo considera un utile contributo ad una conoscenza della storia? - «Il rischio di trasformare le vestigia della Grande guerra in uno scenario di fruizione di immagine piuttosto che di vera memoria si è già verificato. Ma una seria operazione di recupero con criteri storici precisi è un grande vantaggio. Offre una visione delle concretezza della guerra, anche nella quotidianità della vita dei soldati e delle popolazioni. L’Italia e la Slovenia sono all’avanguardia in questo campo per promuovere la memoria storica e anche un turismo che però deve essere realmente storico».

In Friuli la fine della Grande guerra inaugurò un periodo di forte compressione del suo storico multiculturalismo e delle minoranze linguistiche verificatasi peraltro anche nelle terre di cultura e lingua tedesca, slovena e croata che l’Italia si trovò a dominare dopo il 1918. La storiografia italiana ha fatto abbastanza i conti con questo periodo tutt’altro che luminoso? - «Non a sufficienza, però non è l’unica. Questa tematica ha bisogno di un interesse culturale, un desiderio di conoscenza e di ricostruzione della realtà dei processi di assimilazione e depauperamento delle culture locali. Un interesse il meno possibile legato a rivendicazioni attuali e molto vive nel presente. In ogni caso è più difficile condividere la memoria sull’imposizione di una lingua, di una cultura, di un sistema di vita che non la memoria di una battaglia. Per questo gli storici seri ci sono andati cauti e bisogna fare ancora molto cammino. Talvolta la documentazione di questi processi è andata dispersa a causa di un certo tipo di politica nazionalista e fascista di soppressione delle libertà. È importante che alcuni centri culturali della minoranza slovena in Italia e italiana in Slovenia e Croazia, delle popolazioni ladine e friulane, lavorino per il recupero di queste fonti storiche perché questa è una strada ancora molto aperta e da percorrere. Fa parte di quella memoria condivisa che ci è indispensabile per costruire il futuro».