nuove dal friuli e dal mondo

Maggio 1976 - Maggio 2006

 30 anni dopo...
versi, pensieri e riflessioni sui ricordi ancora vivi nelle nostra mente

IL MIO VENERDI’ DEL 6 MAGGIO DI TRENT’ANNI FA A OSOPPO

     Stavamo seppellendo i morti, quel sabato 8 maggio del ’76, nel cimitero di Osoppo. Io non ne avevo mai visti tanti insieme, se non il giorno dello spezzonamento. Ma avevo solo 7 anni, ricordo carri carichi di cadaveri sulla strada del Forte.
     Prima di calarli nella fossa comune, questi poveri corpi dovevamo riconoscerli. E poi comporli, riportare i loro nomi sui registri e su una piantina. Erano volti noti, familiari, di vecchi e bambini, amici, parenti, corpi straziati, due piccoli ancora abbracciati, il corpo di donna in un secchio.
     Una giornalista dell’agenzia Reuter, mi chiede in tedesco se sia davvero un prete. E poi: “Ma lei crede in Dio?”. – “Signora, è una domanda cui ora non so rispondere”.
     La foto che mi ritraeva sull’orlo della fossa, in mezzo ad una serie di corpi senza vita, accompagnata dalla didascalia “un prete che ha perso la fede nel terremoto”, ha fatto il giro del mondo. Mi scrivevano anche mormoni dall’America, rassicurandomi delle loro preghiere. E soprattutto emigranti, dall’Argentina e dal Sud Africa, che discretamente mostravano la loro solidarietà.
     Mamma Delma ha sofferto per questa mia esternazione, che sapeva sincera ma apprezzandola non proprio per quanto di meglio ci si aspetterebbe da un uomo di chiesa.
     Ho sofferto anch’io, ma per motivi diversi.
     Non mi ha fatto soffrire il sentirmi coinvolto fino in fondo in questa tragedia collettiva. Anzi, ho sempre pensato che un tumore, un incidente, una disgrazia individuale rappresenti, se sopportata in solitudine, un terremoto ancor più sconvolgente di quello vissuto insieme nella nostra Osoppo del ’76.
     Mi inquietava, invece, la mia incapacità di dare – a me stesso ed agli altri – una risposta a domande del tipo: “Che senso ha tanto dolore? Che cosa abbiamo mai fatto per meritarci sofferenze del genere? E i bambini che c’entrano? Ma se esiste un Dio creatore, onnipotente, buono, perché non interviene? E se non può intervenire, che dio è? Ma c’è un dio?”.
     Domande che vanno in profondità, come ferite che non si rimarginano, sono spine piantate nei fianchi.
     Eppure un risposta c’è, anche se non bella, né convenzionale né da servire ben confezionata sul piatto.
     La risposta a me viene da Gesù, il mio modello di vita e compagno di viaggio in questa avventura della vita, uno che ha vissuto lo stesso dramma e provato le stesse paure, ed ancor più grandi, perché in solitudine.
     I vangeli sono concordi nel riferire che le ultime ore di Gesù di Nazareth sono state tragiche, non solo nel corpo ma anche nello spirito.
     Io ho sempre condiviso senza tentennamenti la verità cristiana che Gesù di Nazareth era vero Dio e vero uomo, uomo verissimo, in tutto come noi. Ma non erano bastati gli studi e gli insegnamenti teologici (e nemmeno l’ultima mia traduzione di un intero libro, appena conclusa nel 1975, sul tema della sofferenza di Cristo). Ci voleva l’esperienza del terremoto a farmi capire che il mio, il nostro dramma, era stato vissuto anche da Gesù di Nazareth. E qui sarebbe stata la risposta ai perché.
     Quel Venerdì di passione, straziato nel corpo e tormentato nello spirito, abbandonato dai suoi e rinnegato dagli amici più fidati, Gesù ha invocato – “tra forti grida e lacrime” – il Padre che non rispondeva.
     Perché non intervieni? Perché mi hai abbandonato anche tu? Dove sei? Ma ci sei?
     Lo stesso tormento e le stesse paure dei terremotati di tutti i tempi e di tutte le condizioni.
     Ma le ultime parole che gli astanti registrano ai piedi del Gesù morente non vengono da un disperato ma dal credente: non ti sento, ma nelle tue braccia invisibili depongo il mio spirito.
     Questo Gesù che muore sulla croce, nelle tenebre che avvolgono il Golgotha, mentre la terra trema per un improvviso terremoto, è la risposta che avrei voluto dare anch’io a quella giornalista della Reuter. Peccato, non l’avevo ancora chiara mentre seppellivo quei cento morti senza perché.

don Dino Pezzetta - maggio 2006

  PAR MAJ, PAR SIMPRI
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 Taramot
(versi di Ivano Miconi)

Che sere
 
Lagrimis tai voi,
sentât in tal curtîl,
il fum ancjimò tal ajar
e int a cirî i mêi e i tôi.

Maseriis in te strade,
peraulis fin parajar
e muars sun t’un mantîl.
Il treno fêr, su la ferade.

Son robis te memorie,
ricuards, pinsîrs
che no si piardin
ormai, e son te storie.


 
Sis di maj 76
 
Al jere cjalt in chê matine,
dut il dì,
al à scotât.
Dut il dì
an blestemât
operajos sot il sorêli.
In te sère, par furtune,
un tic di fresc
al è rivât.
Jere ore,
o vin polsât.
Jerin nuf
e al è rivât...
IL TARAMOT !
e dut al à disfat,
ce ch'o vevin fat.
 
Taramot
 
Come il cjan,
dopo la baruffe,
tal sorêli al stà,
lecantsi lis plais
e polsant un moment
par tornâ a lâ,
cussi, tu, Furlan,
senze stufati,
tu tornis a comenzâ,
tai paîs
gran moviment,
tant lavorâ,
subite a sistemâ
ce che, cun dispiet,
IL TARAMOT
al à fat saltâ.
 

UN PICCOLO POPOLO VI DICE GRAZIE, MA I BAMBINI NO
David Maria Turoldo - II Giorno, 11/05/1976

     Ho bisogno di parlare con qualcuno. Non capisco il giornalista di mestiere. Scrivere per chi? Non è un altro modo di essere alienati? E se è alienato il giornalista, non sarà alienata anche l'opinione pubblica? Io ho bisogno di riferirmi a un uomo, a un amico.
     Caro Afeltra, sei tu responsabile di questo impegno che mi hai dato per il mio Friuli. Dio mio, ho il cuore gonfio fino a scoppiare. E sento che è un'offesa fare della letteratura. Qui ci sono ancora morti da estrarre dalle macerie: qua e là si riesce a tirare fuori ancora vivo qualcuno: ad Avilla di Buia, per esempio, è stata trovata viva una donna, sposina da pochi mesi, che esce da quella sua tomba di travi e di cemento con una ciocca di capelli del suo sposo morto per difendere lei; e lei è ancora in vita. Dopo venti-trenta e più ore. Cose da spaccarci dentro. E poi un emigrante a Mels, che incontro per caso; Mels è sempre in quel di Buia: un inferno!
     L'emigrante viene da Basilea, io ero appena stato a Basilea a parlare proprio agli emigranti friulani presso la missione cattolica di quella città; e lui, arrivato allora, con la porta della sua Volkswagen aperta, che spinge la finestra sbarrata di una casa tutta crepe, e guarda, guarda: nessuno! Io mi fermo e gli dico: «Ma tu sei di Basilea». «Sì, appena giunto, ma non trovo nessuno! Solo la casa, in questo modo!». «E allora?». E mi risponde: «Ventiquattro anni di valigia, padre!» e si volta dall'altra parte. Perché non è che i friulani non piangano, piangono anche loro, ma non vogliono farsi vedere. E' così: tutti fanno finta di parlare di altro, quasi non fosse successo niente; e seppelliscono i morti come se fosse da piantare una nuova semina nella terra. Nei paesi c'è quasi silenzio. E si trovano anche dei crocchi di gente su qualche marciapiede come se fossero in attesa di essere chiamati: ingaggiati da qualcuno, come gli operai della parabola del Vangelo: «Andate anche voi nella mia vigna, e non state sulla piazza».
     Ecco, di queste cose, se ne possono scrivere interminabilmente, ma non voglio cadere nel colore, solo nel colore. Anzi, non è colore, caro Afeltra: questa è un'altra gente. Noi siamo fatti così. Io sono di costoro.
     E tu, amico, mi chiedi di parlare di loro: è come scavare nella propria carne. Come giocare con un bastone nelle proprie ferite. Potrei parlare all'infinito: per esempio, oltre che del silenzio dei paesi, dell'ordine delle strade, della solidarietà di tutti. Qui non è che uno goda perché nessuno della sua casa è sotto; qui si gode o si soffre tutti insieme. E se io ho la casa in piedi e la tua è caduta (quante cadute! Paesi interi caduti, distrutti, rasi al suolo! E ciò che è in piedi è ancora più pericoloso di quanto è caduto: e bisognerà abbattere tutto, radere tutto al suolo: venti paesi forse, forse trenta, forse di più. E quanti i morti? Ancora nessuno lo può dire, eccetera eccetera), dunque se tu sei fortunato e io no, sono certo che tu piangi per la mia sorte come se fosse la tua. Questo è di tutti i poveri, ma è specialmente di noi friulani. Perché ne abbiamo provate troppe, troppe ce ne ha mandate il Cielo nella nostra umile storia, nota solo a noi e ignota al resto dell'Italia, ignota persino alla Chiesa.
      Cosa volete, il resto dell'Italia non sa nulla della nostra storia, e della nostra lingua e della nostra cultura.
     Anche l'Informazione (che pure in questi giorni è stata brava, sublime) sbaglia un nome per un'altro, una località per un'altra: dice ad esempio «passo di Tarcisio» per passo di Tarvisio; e anche il Papa domenica ha detto Friuli invece che Friùli. Ma fa niente! L'importante è che tutti, tutti han cercato di capire, di partecipare, di aiutarci. Di questo vi ringraziamo, vi saremo sempre riconoscenti. Ma a questo punto è bene che vi diciamo chiaramente alcune cose:

  • 1) Che delle autorità non vengano tanto ad intralciarci il lavoro. Questo Leone lo ha avvertito subito e noi gli siamo grati.

  • 2) Che siamo grati veramente, per quello che ha detto Cossiga (finalmente un ministro, e per di più democristiano, che parla bene, che si comporta bene: ma ho paura che sia troppo tardi): e dunque il governo stabilisca quello che deve stabilire: che poi passi tutto alla Regione; che la Regione passi ai Comuni; poi penseremo noi, noi tutti - insieme e singolarmente – ad amministrarci: e vedrete che non vi disturberemo più.

  • 3) Anzi, già mi dispiace che vi siete disturbati tanto. Ciò che più ci commuove è questo amore di popolo verso un piccolo popolo che siamo noi friulani: grazie! Questa è l'Italia: un'Italia che esiste ancora, nonostante i suoi governi.

  • 4) Agli amici poi che ci offrono asilo per i bambini e per i vecchi devo dire a nome di molti che ho interrogato, che no: i nostri bambini non li manderemo via mai, che li assisteremo noi, nel nostro Frinii, nell'altra parte rimasta intatta; e così per i vecchi: che anzi non ci staccheremo dalle nostre macerie: perché abbiamo tutto da rifare e subito. E dunque grazie ma capiteci: a un male non si rimedia con un altro male. Per noi è male staccarci dai nostri figli: i figli devono stare qui e imparare.

  • 5) Dico anche che uno di Osoppo mi ha comandato di scrivere ben chiaro che non dobbiamo neppure ricominciare dalle case, ma dalle fabbriche: magari vivendo su delle roulotte. Perché abbiamo bisogno di lavoro. A dopo, tutto il resto. Anzi, sono queste le sue parole esatte: «Padre, non cominceremo mica di nuovo dalle chiese! Io voglio pregare, e pregherò anche per la strada: ma prima il lavoro!». Non era un ateo dunque, o un maledetto, ma un credente. Proprio così, questo è il friulano. E ciò vuoi dire due cose: primo che si pensa di ricominciare e l'altro, del modo di ricominciare.

  • 6) Per finire, ancora ad Osoppo, uno sterratore giovane (ed era giovane, ho i testimoni!) ha trovato tra le macerie mille lire; e vedendomi - perché sono sempre in tonaca - mi disse: «Padre, ho trovato mille lire. Le prenda e dica lei una messa per tutte queste rovine».

Dunque: non dalle chiese (nel senso materiale della parola) e neppure dalle case. Ma sempre dalla fede, da una fede! Così il Friuli, terremoto permettendo (un misterioso, indecifrabile, maledetto flagello!) ricomincerà. Anzi, pensa già di ricominciare.

(Tratto dal libro 6 Maggio 1976 Terremoto in Friuli - Edizioni Biblioteca dell'Immagine)