0-indie.GIF (197 byte). IL TERRITORIO DI MANZANO NELLA STORIA
di Walter Peruzzi

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Tratto dall'Intinerario storico-naturalistico:
"DAL BOSCO DELLA SDRICCA AI COLLI DELLA MANZANIZZA".

Volume realizzato con la collaborazione di:
Comune di Manzano - Assessorato all'ambiente;
Provincia di Udine - Assesorato all'ecologia, ambiente e territorio;
Club Alpino Italiano
- Sezione di Manzano

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La geologia ci informa che il territorio di Manzano, come quello di tutto il Friuli, ha iniziato a configurarsi con il corrugamento del terreno ed il formarsi dei rilievi nel periodo dell'eocene. Questo primo stadio dell'era terziaria o cenozoica, è caratterizzato dal declino dei rettili e dallo sviluppo dei mammiferi nonché dell'arretramento dell'acqua, dovuta alle variazioni climatiche e che, nella successiva era cenozoica o quaternaria, iniziata circa due milioni di anni fa, ha visto la comparsa e la diffusione dell'uomo sulla terra.

I fossili marini, le conchiglie, i nummuliti che ancora si trovano sulle nostre colline ne sono la prova.

Per quanto riguarda la presenza umana nell'età della pietra e in quella successiva dei metalli, finora nel manzanese niente è affiorato quale tangibile testimonianza e nulla possiamo affermare fino all'arrivo dei Romani e alla loro colonizzazione, perché, con la conquista, fecero sparire ogni traccia di civiltà precedenti.

Grandi costruttori di strade, i Romani, a difesa delle colonie, eressero castelli, fortini, osservatori, torri di segnalazione e luoghi di rifornimento lungo tutte le strade che partivano da Aquileia e procedevano verso i monti.

Manzano si trovava sull'arteria stradale che conduceva al borgo fortificato di Forum juIii, l'attuale Cividale, dove esisteva un importante mercato per il commercio con i popoli vicini (si scambiavano già i vini di Rosazzo e l'olio di Oleis). La posizione strategica di Manzano e lo stesso toponimo fanno supporre l'esistenza di un "castellum" e di un colono romano di nome Amantius, da cui deriverebbe l'attuale toponimo prediale di Manzano. Oltre a stabilire le terre coloniche che servivano alle ville padronali, dove si trovavano l'abitazione dei "dominus", i depositi e le case dei coltivatori, i primi coloni, per difendersi dalle scorrerie dei barbari, costruirono le loro case a gruppi non distanti dall'abitazione del capo, il quale abitava nel fortilizio che, in caso di necessità, serviva per la sicurezza di tutti i coloni dei dintorni ed è certo che qui stanziò anche una guarnigione.

Inoltre per la sicurezza dell'arteria stradale, i Romani, nei punti più importanti, insediarono vedette e posti di blocco; disposero luoghi di ristoro e cambio cavalli, ed attorno a questi presidii vivevano intere famiglie romane. Tracce di insediamenti romani e di tombe, urne, anfore, fibbie, anelli, vennero alla luce ad Oleis (località Malachis), a Sdricca di Sopra, a Manzinello (località S. Stefano), a Soleschiano, in località Marussig, Rio Manzanizza (grava Fierute) e in località Braidate; forse esisteva anche una fornace a Case, una in Via Orsaria e un'altra nei pressi dei Castello di Manzano, conferma per quest'ultima venuta dalla recente operazione di scavo dove è apparso alla luce materiale riciclato e appartenente ad una villa romana.

Altro castelliere era senz'altro quello di Sdricca, le cui vestigia rivelano elementi murari antichi. Con la decadenza dell'impero romano, anche Manzano subì conseguenze terribili a causa delle invasioni barbariche.

Un'antichissima tradizione narra che, nel 455, Astolfo dei Palatini di Carinthia pose mano alla struttura del castello goriziano e a due palazzi di residenza gioconda: uno nei colli rosacensi e l'altro a Fiumicello.

Del castello di Rosazzo e delle sue vicende non esistono documenti fino al sec.IX.

Probabilmente, a seguito delle devastazioni compiute dai barbari nei secoli precedenti, il maniero fu distrutto ed i dintorni rimasero deserti. Infatti tutto il territorio manzanese fu teatro dei loro scontri.

Dopo che Aquileia perse la sua supremazia, Cividale divenne il centro principale della provincia e l'invasione che ebbe maggiore ripercussione fu quella dei Longobardi e dei loro scontri con gli Avari e gli Schiavi. Tracce del loro

passaggio si possono forse ricollegare al ritrovamento di una tomba caratteristica, scavata e sorretta da una volta ad arco, di un soldato, e di una lampada particolare, rinvenuti nel 1928 presso la casa di Antonio Sabot (Via IV Novembre).

I Longobardi, pur avendo apportato leggi e costumi nuovi, pare si incontrassero a Manzano solo per cacciare o respingere orde nemiche. Infatti lo storico Fabris nel 1800 narra che: "Questo paese dieci secoli fa non era che boscaglie e luoghi di caccia per quei Longobardi che avevano diserto e sottomesso il Friuli. Appena alcune capanne, nascoste nelle macchie, presso le rare sorgenti di acqua, di gente slava, gente che i Longobardi con diversa fortuna, sempre respinsero, ma di cui tuttavia non poche famiglie erano riuscite a stabilirsi anche tra i colli e la pianura".

Con lo scisma dei Patriarchi dei 628 e col trasferimento della sede patriarcale a Cormòns, anche i paesi vicini, tra cui Manzano, ricevettero nuovo impulso.

Successivamente, nel 737, dopo che la sede patriarcale venne trasferita a Cividale, le nostre popolazioni si sentirono trascurate e senza protezione, soggette ad ogni sorta di angheria: così abbandonarono i piccoli villaggi per rifugiarsi in grandi agglomerati fortificati e circondati da cinte murarie, e le campagne bonificate e coltivate a cereali, alberi da frutto, ortaggi e viti secondo la "vis romana" vennero abbandonate e lasciate incolte.

Intanto nei pressi di Rosazzo, un eremita alemanno, nell'anno 800, si ritirò dal mondo e, costruitasi una capanna ed un piccolo oratorio, con la sua vita di preghiera e penitenza attirò altri compagni. A questi eremiti si unirono i monaci Agostiniani che, al loro arrivo, trovarono tutte le colline coperte di fitta boscaglia e la pianura incolta e deserta. Pochissimi erano gli abitanti che risiedevano nella zona e le loro condizioni erano miserevoli. I monaci si diedero subito da fare per dissodare il terreno e renderlo coltivabile, ma ecco profilarsi una nuova tremenda invasione: quella degli Ungheri che dall'899 al 952 devastarono tutta la regione, facendo terra bruciata al loro passaggio, uccidendo, in ogni incursione, tutti coloro che incontravano.

Pare che in questo periodo i monaci di Rosazzo trovassero scampo presso il fortilizio di Sdricca, dove ancora si possono scorgere nella cappella e nelle pitture i segni che, presumibilmente, riproducevano volti di Santi.

Passata la bufera, gli Agostiniani ritornarono a Rosazzo ed eressero un vero e proprio monastero, la cui costruzione viene fatta risalire al 958 o 967.

Ripresero la loro opera di agricoltori, e istruirono i poveri abitanti dei luogo: e ben presto riuscirono a coltivare il terreno a vino, grano e olio.

Grati per i benefici ricevuti dai monaci, gli abitanti concorsero all'ampliamento del monastero ed alla erezione della grande chiesa verso gli anni 1068-1070.

L'importanza strategica dell'Abbazia fu subito capita sia dal Patriarca sia dal Conte di Gorizia, che la dotarono di cospicui beni: nel 1084 troviamo una donazione del duca Marquardo al patriarca Durico di 140 masi siti in Oleis, Pasegliano, ecc. Ecco che per la prima volta appare il nome di Oleis, che pare assumesse tale denominazione dai numerosi frantoi e dell'olivo che si coltivava già in epoca antica.

Intorno al 1090 il patriarca Voldarico, già abate di San Gallo in Svizzera, sostituì i monaci Agostiniani con i Benedettini.

Al seguito dei Patriarca, probabilmente, venne anche la famiglia che si è poi trapiantata a Manzano.

E, nel 1106, appare per la prima volta il nome di Manzano in un atto di donazione del castello di Attems e delle sue dipendenze, nel quale Ermanno di Manzano funge da testimone. Un altro documento, datato 1166, riferisce che Ulrico o Voldarico d'Attems, già marchese di Toscana, trasferiva i propri feudi a Voldarico li, Patriarca di Aquileia, perchè ne desse l'investitura a Luicarda sua figlia, a suo marito Enrico di Manzano e al loro figlio Corrado.

Già da questi documenti possiamo dedurre una certa potenza economica e politica dei di Manzano, i quali, abbandonato il nome tedesco della famiglia di origine dei Wittelsback o Ilminghi o lisunghi (varie sono le ipotesi poichè tutte e tre le famiglie avevano in comune lo stesso stemma, e precisamente una dentatura d'argento con fascia rossa che divide il campo rosso che è appunto quello usato dai di Manzano), assunsero il nome dei luogo dove si stabilirono.

Anche Sdricca fu feudo dei Signori di Manzano e nel 1170 si trova un Enrico di Sdricca. Furono proprio i di Manzano a riadattarlo a fortezza per difendersi dalle scorrerie dei vari signorotti e masnadieri.

Dobbiamo però arrivare al 1216 per trovare un riferimento preciso al castello di Manzano, quando Canciano ne ottiene l'investitura.

Non sappiamo con sicurezza quando esso sia sorto, possiamo però affermare che con esso la nostra comunità si è affacciata alla storia come entità territoriale definita, con una struttura economica e politica di tipo feudale.

L'Abbazia di Rosazzo intanto veniva dotata di grandi possedimenti da parte dei Conti di Gorizia che comprendevano molti paesi del circondario e Pasian di Prato, Pradamano, Rizzolo, Prepotto, tutti i paesi del Collio, Brazzano, parte di Cormons, una trentina di paesi nella vallata dell'isonzo, una parte di Capodistria, Idria, il mercato di Monfalcone, altre zone verso Tarvisio, Plezzo, ecc.

I Conti di Gorizia si riservarono il diritto di partecipare alla nomina dell'Abate di Rosazzo e di essere sepolti nel monastero accanto alle tombe degli abati.

Nel secolo XIII l'Abbazia raggiunse il suo massimo splendore.

Dichiarata indipendente, venne posta sotto la protezione della Santa Sede.

Nell'agosto dei 1245, papa Innocenzo IV, guidando il patriarcato Nicolò I, conferì all'abate Raimondo ed ai suoi successori autorità vescovile con il privilegio di indossare la mitria, di celebrare la messa e le funzioni pontificali con il pastorale, di impartire la benedizione episcopale, di visitare le chiese e amministrare la Santa Cresima. In questo periodo l'Abbazia ebbe scuole pari a quelle dei seminari, possedeva all'intorno sette cappelle, un ospedale per i lebbrosi ed un ospizio per vecchi e poveri. Due di queste cappelle si trovavano lungo la via che dal colle conduce a Case: una a metà via, l'altra sul promontorio verso San Giovanni; una terza pure verso San Giovanni; la quarta, quella di Santa Caterina sul colle omonimo, il più elevato dei territorio, di metri 236, da dove l'Abate, con abiti vescovili, impartiva l'annuale benedizione ai paesi circostanti; la quinta verso Dolegnano; la sesta e la settima, ancora esistenti, presso il palazzo De Marchi e casa Michelloni, a Poggiobello.

Quest'ultima sarebbe stato il lebbrosario di Sant'Egidio. L'Abate aveva il dominio dei vasti possedimenti dell'Abbazia, il grado di dignitario di primo ordine nel Patriarcato e votava terzo nel consesso dei prelati dei pubblico Parlamento.

Aveva alle dipendenze un governatore civile che amministrava la giustizia e giudicava le cause civili e penali fino ad un certo limite, col potere di infliggere e comminare pene pecuniarie e condanne al carcere. I condannati venivano rinchiusi nel carcere, situato nel torrione di fronte alla chiesa, ancora esistente.

La sala di giustizia era situata al primo piano dell'edificio attiguo.

Il governatore sorvegliava i lavori agricoli, dirigeva l'ufficio del dazio e la riscossione delle tasse, amministrava l'emporio di merci e viveri e di altre cose necessarie, depositate nei grandi magazzini di proprietà esclusiva del clero; a Rosazzo c'era sempre un gran concorso di gente dei paesi circostanti.

Sul piano economico, l'Abbazia di Rosazzo godeva di consistenti entrate e, nel 1286, l'Abate Corrado, visto il considerevole incremento delle vocazioni, dotò il monastero di nuove celle; l'abate Giovanni, nel 1305, continuò l'opera.

Il culmine del prestigio l'Abbazia lo raggiunse quando gli abati Giovanni I (1297-1319) e Giovanni Il (1319-1336) furono nominati vicari patriarcali, acquistando in tal modo notevole importanza nella vita politica friulana.

La grande produzione cerealicola aveva spinto i monaci a dotarsi di mulini per la macinazione e così verso il 1000 venne scavato il canale Roggia, con lo scopo anche di irrigare i campi circostanti e far funzionare i mulini costruiti lungo le sue sponde.

Rosazzo forniva anche milizie all'esercito patriarcale.

Ritornando al castello di Manzano, non si sa esattamente quali fossero la sua forma e le sue dimensioni, e neanche con la nuova prospezione

archeologica si è potuto stabilirne con certezza il perimetro.

Lo storico Francesco di Manzano descrive il castello di forma ellittica, con torri e merli comuni e strettissime prigioni all'interno, di uno spazio non maggiore del corpo di un uomo. Pare che dal castello partisse una galleria che consentiva ai Signori di Manzano di lasciare il castello in caso di pericolo o per far entrare degli armati da affiancare ai difensori.

I suoi castellani furono piuttosto turbolenti: parteggiarono dapprima per il Patriarca, e poi sostennero, più o meno velatamente, il Conte di Gorizia.

Nel 1230 Canciano viene dichiarato legittimo successore nei feudi di Manzano.

Nel 1256, per cause ancora ignote, il castello subisce un incendio, ma viene successivamente restaurato da Finosio e Corrado di Manzano con l'aiuto del vescovo di Ceneda, Alberto, vicedomino del Patriarca.

Le lotte tra il Patriarca ed il Conte di Gorizia portarono a diversi fatti incresciosi e uno di questi, frutto di odio e vendetta, avvenne il 20 luglio 1267 a Villanova dello Judrio, feudo di Finosio di Manzano.

Il patriarca Gregorio di Montelongo, durante una visita ai Signori di Manzano, fu sorpreso a letto dagli sgherri dei Conte di Gorizia che lo costrinsero a salire su un ronzino, senza indossare le vesti ed a piedi nudi; lo condussero nel castello di Gorizia e ve lo tennero prigioniero per 37 giorni.

Il fatto suscitò l'indignazione dei feudatari friulani che adunarono d'urgenza il Parlamento a Cividale. Fu l'arcivescovo di Salisburgo, a seguito dell'intervento dello stesso Papa, che, con diplomazia, ottenne la liberazione del vecchio Patriarca. Appena libero lo fece accompagnare a Cividale da un lungo corteo, attorniato da nobili feudatari e da milizie: il suo passaggio fu accolto con gioia ed acclamazioni da tutta la popolazione.

Il Conte Camillo di Manzano ci racconta che il Patriarca volle ringraziare Finosio di Manzano per essersi adoperato per la sua liberazione, anche se in cuor suo pensava che fosse stato d'accordo con il Conte di Gorizia.

Lo invitò ad un sontuoso banchetto e, come privilegio, lo fece sedere al suo fianco. Durante il pranzo, Finosio si complimentò per un piatto molto delicato e particolare che gli era stato servito e chiese informazioni al Patriarca degli ingredienti usati: questi gli confessò che gli era stato cucinato il cervello di sua madre, assassinata poco prima. Non sappiamo se si tratta di una leggenda o di un fatto realmente accaduto: però ciò ci fa capire che l'odio bellicoso e vendicativo non lo possedevano solo i Signori di Manzano, ma che era patrimonio comune di tutti i governanti.

In un campo di Manzano, nei pressi della chiesa di San Martino, il 2 ottobre 1279 venne stipulata una tregua fra il patriarca Raimondo della Torre ed Alberto, Conte di Gorizia.

Nel 1293 si celebrò nel castello il matrimonio di Corrado di Manzano con Matilde di Buttrio, alla presenza del patriarca Gottifredo.

Dal 1293 al 1299 i di Manzano si scontrarono violentemente con Vecellio di Gramogliano e, durante le scorrerie, commisero vessazioni anche nei paesi vicini e dovette intervenire personalmente il Patriarca per far cessare queste angherie.

Nel 1299 restaurarono il castello e, durante l'assedio delle truppe patriarchine di qualche anno dopo, i di Manzano riuscirono a fuggire dal castello attraverso il passaggio segreto, mentre il maniero venne saccheggiato e distrutto. Intanto, nel 1300, Manzinello viene concesso in feudo a Nicolò di Buttrio.

Successivamente il Patriarca, riappacificatosi, fece restaurare il castello e lo restituì ai suoi feudatari, previo il pagamento di 150 marche.

Nel 1309, in onore dell'ospite Conte di Gorizia, vennero celebrate splendide feste ed un magnifico torneo e vi partecipò il fior fiore della nobiltà friulana; nel 1313 il Conte di Gorizia ed il Patriarca presenziarono alle nozze di Bertoldo e Riccarda di Villalta.

Un grave fatto di sangue avvenne nel castello di Manzano il 23 agosto 1341: Taddeo uccise la moglie Sofia di Buttrio accusandola di adulterio ed espose il cadavere alla mercè delle bestie randagie. La moglie era innocente, pare invece che lui se la intendesse con la matrigna Luicarda. Comunque a carico di Taddeo si istituì un processo a Cividale ed egli fu severamente condannato. Ma lui ed i fratelli, insofferenti, si rivolsero contro Cividale e dovette intervenire il Patriarca Bertrando per pacificare gli animi:Taddeo e il fratello Bertoldo furono assolti.

Nel 1367 il castello subì l'assedio degli Austriaci, e solo grazie agli Udinesi alleati con i Cividalesi ed i Gemonesi riuscì a ritornare ai di Manzano, ma gli stessi vincitori lo incendiarono e lo distrussero.

Restauratolo nel 1377, i di Manzano vi andarono a vivere con tutta la corte.

Nel 1385 i di Manzano vennero scomunicati, e tutti i loro beni confiscati per non aver lasciato entrare nel loro feudo i patriarcali ed i Cividalesi. Prosciolti successivamente dal Papa, persero i loro beni perchè Cividale si rifiutò di restituirli.

Nel 1392 Taddeo di Manzano fu cacciato dal castello per opera di Guarnerio Favarotta, ma nel 1404 riottenne la proprietà del castello e sostenne con le armi i diritti di nobiltà.

Nel mese di giugno dei 1422, Manzano e l’Abbazia di Rosazzo ebbero a subire un violento assedio da parte del patriarca Ludovico di Teck che, con le armi e 4000 Ungheri, tentò di riprendere il Friuli ai Veneziani e riuscì ad impadronirsi sia del castello che dell'Abbazia.

I Veneziani riuscirono successivamente ad avere ragione di quelle truppe.

Il 30 ottobre 1431, a capo di 5000 Ungheri, Ludovico di Teck entrò di nuovo in Friuli giungendo fino a Manzano e con 1500 cavalli raggiunse le porte di Udine. Le sue truppe, non essendo

riuscite ad ottenere la resa dell'Abbazia di Rosazzo, vi entrarono con la forza rubando ogni cosa, incendiandola e tagliando la mano destra a tutti coloro che vi trovarono.

Il 5 novembre i Veneziani diedero addosso agli Ungheri, recuperarono il bottino e per vendetta tagliarono a pezzi quelli che caddero nelle loro mani e agli altri troncarono le mani e strapparono gli occhi.

Avendo dato aiuto al Patriarca, Giovanni e Pantaleone di Manzano vennero fatti prigionieri dai Veneziani e, confiscati loro i beni, furono condannati a morte.

Il 26 novembre dello stesso anno, grazie all'intervento di Cividale, i Signori di Manzano vennero graziati e riebbero i loro beni, ad eccezione del castello che venne completamente distrutto, per ordine del Senato veneto, il 2 dicembre 1431.

La famiglia che tanto aveva contato per Manzano e per il Friuli, che occupava un posto in Parlamento sin dal 1295,

ed i cui componenti avevano ricoperto importanti cariche di ambasciatori, da questo momento si trasferisce parte a Cividale, un nucleo a Gorizia, ed altri restarono a Manzano installandosi nell'attuale Palazzo, ora abitato dalla famiglia Fornasarig.

Come ogni castello che si rispetti, anche il nostro conserva il suo tesoro nascosto: infatti nelle più profonde segrete della famosa galleria giacerebbe una carrozza d'oro ricolma di oggetti preziosi.

Verso la fine dei 1400, una nuova invasione era alle porte e i Veneziani, per difendersi in caso di attacco, mantennero molti soldati mercenari. Costoro devastarono perfino le ville di San Lorenzo, Soleschiano, Le Case e Manzano.

Nel 1427 arrivarono i Turchi e gli abitanti, terrorizzati, si rifugiarono a Udine e Cividale; dopo due giorni i Turchi ripartirono con 1500 prigionieri e tanto bottino, ma in questa prima incursione non arrivarono a Manzano. Vi giunsero invece nel 1477 e incendiarono e saccheggiarono circa 120 villaggi tra cui San Lorenzo di Soleschiano.

Nel 1508, il papa Giulio li, l'imperatore di Germania Massimiliano e i re di Francia e di Aragona si unirono in lega contro la repubblica di Venezia. L'imperatore in caso di vittoria avrebbe ottenuto il Friuli e l’Istria.

All'inizio dello stesso anno Massimiliano, re di Germania, mosse guerra alla Serenissima che inviò in Friuli, come provveditore, Giorgio Cornèr, e comandante della milizia Giustiniano Morosini.L’8 aprile dello stesso anno alloggiarono a Manzano 3000 fanti ed il resto della truppa si installò a Manzinello.

Il 25 luglio 1509, una parte dell'esercito tedesco, guidata dal duca Enrico di Brunswich, entrò in Friuli dalla parte di Gorizia con 16.000 soldati e bruciò Manzano ed altri paesi vicini, quali Medeuzza, San Giovanni, Villanova, Camino, Caminetto. Queste truppe erano veramente spietate ed avevano addestrato persino i cani a dare la caccia agli uomini.

Rosazzo fu risparmiata perchè si arrese.

Il 30 luglio però le milizie imperiali, saputo che l'Abbazia aveva avuto rifornimenti veneti e non essendo riusciti a conquistare Udine e Cividale, la cui presa era determinante per avere libero accesso da una parte al Cadore e dall'altra all'Isonzo, con ferocia inaudita ritornarono a Manzano e, distruggendo ogni cosa rimasta, si diressero verso Sdricca, incendiandola; proseguirono poi verso Rosazzo e, smantellate le mura con quattro cannoni, vi entrarono passando a filo di spada soldati, uomini, donne e perfino bambini e, lasciando i loro cadaveri ai piedi degli alberi, raggiunsero anche quelli che avevano trovato riparo in chiesa e lungo la scala dei campanile per sottoporli ad analoga triste sorte.

Puntando nuovamente verso Cividale, distrussero Oleis e Case.

L'Abbazia che tanto aveva contato sul nostro territorio era caduta in completa rovina e con essa tutto il resto del manzanese, con il castello ormai da tempo distrutto e Sdricca incendiata.

Le scorrerie tedesche continuarono con grave danno dei rari superstiti e delle poche case rimaste.

Intanto sul finire dei 1510 a Udine vennero segnalati dei casi di peste, che si diffuse in tutto il Friuli nel 1511; come se non bastasse, anche un violento terremoto si abbatté su tutto il territorio provocando gravi danni, e a Udine crollò anche il castello. Pure tutto il cividalese fu gravemente danneggiato. La peste, unita al tifo e al vaiolo, continuò a mietere vittime per altri anni e ad essa si aggiunsero calamità naturali e carestie che decimarono la popolazione.

Nel 1514 di nuovo gli imperiali ebbero la strada aperta in Friuli e le loro bande dilagarono in ogni luogo, comandate dal conte Nicolò di Salm, che pose campo proprio a Manzano.

Anche Udine e Cividale capitolarono agli imperiali e una delegazione del Consiglio di Udine il 13 febbraio 1514 dovette rendere omaggio al luogotenente imperiale sottoscrivendo, presso il campo di Manzano, una taglia bellica di 4.000 ducati.

A causa di queste continue guerre i commerci furono completamente bloccati e nessuno si fidava a lavorare i campi, tanto che i cinghiali ed i lupi scorrazzavano da padroni.

Risale a questo periodo il fatto riportato nel libro storico della Parrocchia di Corno di Rosazzo in cui si racconta che un bambino di Oleis morì sbranato dai lupi.

I preti cercavano di risollevare le misere condizioni e di offrire soccorso agli ammalati e indigenti, e così sorsero le prime confraternite: ad Oleis quella di San Nicolò, a Manzano quella della Madonna e di San Valentino, considerato anche protettore contro la peste.

Passate le invasioni dei Turchi, le lotte imperiali

e veneziane conclusesi con la guerra di Gradisca dei 1615/1617 e con la pace tra Veneziani e Turchi nel 1699, un po' di calma ritornò in Friuli; manzanese compreso. Ovunque però si registrava un gran calo demografico, si pensi che in Friuli nel 1561 esistevano 250.000 abitanti mentre nel 1602 la popolazione era scesa a solo 92.000 persone.

Fu in questo periodo che i Patriarchi invitarono popolazioni di altre regioni ad installarsi in Friuli, e soprattutto i Toscani intravidero la possibilità di commerci e scambi in questa terra che faticosamente rinasceva; molti di loro si stabilirono nel manzanese, come testimoniano ancora oggi alcuni nomi propri.

Il papa Martino V, per risollevare le tristi sorti dell'Abbazia di Rosazzo, la diede in commenda ora a uno ora ad un altro cardinale, fino alla soppressione dei Patriarcato di Aquileia, avvenuta nel 1751.

L'abate commendatario Giovanni Matteo Giberti fece restaurare radicalmente tutto il complesso, compresi gli affreschi. Il lavoro fu compiuto nel 1533, e al posto dei Benedettini arrivarono i Domenicani.

Civilmente i paesi dei manzanese erano comunità indipendenti che si amministravano tramite il consiglio di una vicìnia composta da tutti i capi famiglia, che trattavano i propri interessi alla meglio. A capo c'erano il Decano, corrispondente all'attuale Sindaco,e due giurati con funzioni di assessori. Il Consiglio tenuto si chiamava vicìnia e si svolgeva all'aperto: a Manzano probabilmente nella cosiddetta "place dal tei".

Si radunava al suono delle campane. C'erano uno scrivano con funzioni di segretario e il brico che fungeva da messo comunale.

I vicini, o uomini dei Comune (i capi famiglia), erano obbligati a partecipare alle sedute: l'ingiustificata assenza era punibile con un'ammenda consistente in qualche libbra di olio da fornire alla chiesa o in qualche beneficenza ai poveri. Il campo delle sue decisioni era molto vasto e deliberava sia sui lavori campestri sia sulle cose della chiesa, sugli abusi da perseguire, ecc. Erano puniti persino i fanciulli che distruggevano i nidi. I nostri antenati erano senz'altro più rispettosi della natura di quanto siamo noi oggi.

Queste vicìnie erano autonome, perchè i paesi erano completamente isolati tra loro a causa della mancanza di ponti sui fiumi e corsi d'acqua e di collegamenti stradali. Basti pensare che gli abitanti di Sdricca dovevano guadare due volte il Natisone per arrivare a Manzano, poichè la strada adiacente alle colline fu fatta costruire dal conte Leonardo di Manzano solamente verso la fine dell'800.

Così all'inizio del secolo, Monsignor Giuseppe Foschiani, parroco di Manzano, ricorda il percorso: "Quei de Sdrica per venire a Manzano dovevano passare e ripassare il Natisone due volte; oggi invece grazie alle solerti cure del conte Leonardo di Manzano per migliorare i suoi fondi (fece) una strada che fiancheggia il fiume, comoda e romantica. Anche nei soli più cocenti dell'estate vi puoi camminare a diporto essendo per lunghi tratti l'ombra degli alberi sì opaca che appena qualche raggio si apre un varco tra le frondi".

Le strade dei manzanese erano come quelle di campagna, a solchi e sassi, interrotte da torrentelli quando pioveva e per arrivare a Udine con i carri e le derrate di vino, frumento ed altro, non esistendo ancora la Via Sottomonte (costruita dopo la prima guerra mondiale: prima, infatti, esisteva solamente un sentiero) e nemmeno la strada statale (costruita nel 1932), si doveva passare per Manzinello giungere a Camino e poi Buttrio, guadare il Torre e attraversare Pradamano, per raggiungere infine la zona di Baldasseria.

Per guadare il Natisone o per attraversare le strade coperte di fango con i carri c'era sempre qualcuno, dietro compenso, che aiutava con spranghe, legna e pietre a sollevare i carreggi per agevolare il percorso nei punti difficili.

Testimonianza di queste condizioni viarie, il crocifisso posto sulla vecchia casa di "Gjlio Borghés" (Domenico Cantarutti), nelle adiacenze del ponte sul Natisone, fatto installare da un abitante del Collio in ringraziamento dello scampato pericolo. Egli, infatti, nel 1870, era in procinto di guadare il fiume quando a stento si salvò dall'improvvisa piena e credette di aver perso il carico ed i buoi, che invece riuscì a recuperare qualche ora dopo più a valle.

La statale che conduce a Udine fu costruita solo nel 1932.

Restaurato dunque un periodo di pace e perdurando un generale stato di miseria nella popolazione, tra il 1500 ed il 1600, il popolo restò vittima di un fenomeno di eresia e superstizione che, per i parroci di campagna, divenne un vero problema e, data la sua vasta proporzione, fu trattato dal Sant'Uffizio.

Si credeva alle streghe ed agli stregoni che si incontravano al "Sabba notturno", dove il diavolo presiedeva l'assemblea e marchiava i presenti con il suo segno.

Questi distruggevano i raccolti, succhiavano il sangue ai bambini e gettavano malefici sulla salute delle persone. In contrapposizione a questi personaggi malefici c'erano i "benandanti", nati con la camicia, ossia avvolti nella membrana amniotica che portavano al collo, molte volte benedetta da un sacerdote. Il loro compito era

quello di salvaguardare i raccolti e la salute delle persone: per questo partecipavano ai convegni notturni delle streghe e stregoni armati di canne di sorgo.

Dall'andamento della battaglia si profilava l'anno agrario di abbondanza o carestia.

Il manzanese fu pieno di questi personaggi e numerosi furono i processi celebrati a loro carico. Troviamo nel 1559 Giuseppe e Giovanni per sospetta eresia, nel 1592 Giacomo Gasparini per sortilegio del tamiso, nel 1595 Pietro Vergolino da Oleis, reo di aver praticato magia amorosa e terapeutica. Nel 1601 Giovanni Scornoss e la moglie, originari di Rosazzo, per sospetta eresia e uso di cibi proibiti.

Nel 1606 contro i benandanti Annabella, Pascutta Battilana e Valentino da San Lorenzo e, ancora per maleficio, contro Narda Pascal Virgolini da Oleis e, per magia terapeutica, contro Sebastiano Musini, Pietro Della Vedova, Matteo Leonardi, sua moglie Giacoma e Pietro Danelutti tutti da Oleis, e Domenica de Mattiaz delle Chiase di Manzano.

Nel 1634 un benedettino di Rosazzo, don Pietro Martire da Verona, scriveva all'inquisitore di aver alloggiato nel convento il benandante Giovanni Sion da Moimacco, spiegando come si erano svolti i fatti.

Troviamo un Tin da San Lorenzo, nato con la camicia, chiamato a deporre durante un processo.

Nel 1640 e 1645 sono accusate e giudicate Maddalena Sclave e Valentina Buchit da Rosazzo, ree di aver praticato magia terapeutica.

Nel 1651 si svolse un altro processo contro Pietro Bagagnino di Rosazzo e Menega Cantarutta, strega, riconosciuta dal figlio del compare di Bagagnino, Giobatta Zani di circa 12-17 anni, benandante, che affermava di aver incontrato Menega al convegno notturno; egli affermava che era in grado mostrare il bollo del diavolo impresso sulla coscia dell'accusata, colpevole di aver stregato i porci di Bagagnino e il fattore dei signori Locatelli di San Giovanni. I testimoni a favore di Menega Cantarutta, definita donna di onore e per bene, ebbero la meglio e la malcapitata fu assolta.

Pare che in alcuni processi fosse coinvolto anche qualche sacerdote.

In seguito l'assimilazione fra streghe e benandanti portò incredulità e disinteresse, grazie anche alle mutate condizioni di vita.

E così, mentre i poveri si scannavano fra loro e vivevano in misere case dal tetto di paglia, i signori si permettevano

la costruzione di stupende ville, decorate da famosi pittori, con grandi parchi, magazzini e scuderie.

Tra il 1600 ed il 1800, sorgono nel manzanese: il palazzo dei conti di Manzano, la villa Martinengo (ex di Brazzà) a Soleschiano, il palazzo Ottelio (sui colli, al confine con Buttrio), il palazzo dei conti di Trento, il palazzo De Marchi a Poggiobello, il palazzo Morelli de Rossi a Manzinello, il palazzo Codelli in Via Natisone come pure il palazzo Torriani, il palazzo Romano a Case, i palazzi Maseri e Braida a Oleis, Villa Naglos a Rosazzo e il palazzo Percoto a San Lorenzo.

Soppresso il patriarcato da papa Benedetto XIV, nel 1751, e costituite le due arcidiocesi di Udine e di Gorizia, entrambe vantavano uguali diritti sull'Abbazia di Rosazzo. Successivamente la diocesi di Gorizia rinunciò al beneficio a favore di quella di Udine che affidò a sacerdoti la cura dell'Abbazia, sostituendo i Domenicani che avevano alloggiato nel convento per circa 250 anni.

Dalla secolare miseria il manzanese, come tutto il Friuli, si risollevò in parte con le coltivazioni dei mais e del baco da seta, che presero avvio nel 1600 e 1700.

Con le guerre napoleoniche contro l'Austria e il relativo trattato di Campoformido dei 1797, nuove miserie tormentarono i nostri avi, oltre ai lutti e ai danni provocati ai raccolti dalle incursioni soldatesche: siccità, grandine, alluvioni, locuste, inverni freddissimi ed epidemie completarono il quadro. I contadini, scriveva Caterina Percoto nei suoi racconti, "nudrivansi di radici di erbe selvatiche raccolte nei prati, e, se veniva lor fatto trovare in qualche recesso una covata di piantaggine ("Plantain") ancora verde, se la mangiavano allessata così senza sale e senza condimento di sorta. Macinavano i torsi del cinquantino, e quella sterile e scheggiosa farina mescevano a poche di buona, e ne facevano un arido pane insalubre, senza sapore, e piuttosto inganno alla fame che verace nutrimento. Vicino al villaggio fu seminato un campicello a fave; se ne accorsero i meschini che pativano la fame, e tosto a disseppellire, e colle unghie le razzolavano fuori, e in poco di ora fu voltata sottosopra". Un povero uomo di Manzinello, narra ancora l'autrice de "L'anno della fame" (il 1817), ridotto alla fame e al freddo con l'intera famiglia, poté sopravvivere andando a piantare viti e gelsi per un signore che gli dava "dodici soldi al giorno e due libbre di farina (poco meno di un chilo in tutto); la domenica e il giovedì minestra, e un boccale d'aceto per settimana".

Per capire quanto poco era pagato, in cambio di un duro lavoro dall'alba al tramonto, bisogna considerare che "uno staio di granoturco costava allora quarantotto lire", senza contare il guadagno del venditore e l'interesse che bisognava pagare a chi concedeva le lire in prestito.

Si contraevano debiti per non morire di fame, e si sperava di pagarli vendendo i bozzoli, ottenuti allevando in casa qualche oncia di bachi.

Nella seconda metà del 1800, quando avevano preso avvio le coltivazioni della patata e del pomodoro che, assieme alla polenta, erano sufficientemente nutrienti, subentrò un'atrofia nei bachi da seta che annullò gran parte della produzione. La peronospora infierì sulle patate e pomodori e l’oidio e la filossera fecero stragi nei vigneti.

Di nuovo stenti, miseria e ladrocini.

Mentre gran parte della popolazione friulana era costretta all'emigrazione, nel manzanese s'inserisce, nel 1878, il primo opificio per la fabbricazione di sedie per opera dei fratelli Zaneto e Toni Fornasarig che, dalla natia Mariano, ancora soggetta all'Austria, si trasferirono nell'italiana Oleis e successivamente a Manzano, per ovviare al pesante dazio imposto per i prodotti esportati in Italia.

Questi pionieri installarono il loro laboratorio nei pressi dei canale Roggia, sfruttando la forza motrice naturale dell'acqua.

Uno stanzone, un banco da falegname, un trapano e alcuni arnesi fatti a mano erano sufficienti per iniziare.

Ad essi si unirono altri e si creò una vera e propria industria.

Gli uomini furono affiancati dalle donne che, a domicilio, impagliavano le sedie e che con i loro guadagni integravano il salario familiare.

A quell'epoca il signore di Manzano era il conte Leonardo, sposato all'austriaca Francesca Normand (chiamata familiarmente Aimée) che lo lasciò ben presto. Pare che la contessa soffrisse molto la nostalgia dei suo Paese natio e che si recasse sulla collina antistante i resti dei castello a scrutare l'orizzonte e a sentire la brezza che proveniva dal suo Paese. In quel luogo così caro alla consorte il conte Leonardo fece collocare una colonna con un'iscrizione di affetto e ricordo verso la moglie tanto amata.

Di carattere introverso, senza eredi, il conte Nardin riversò il suo affetto sui suoi cani dai quali volle essere accompagnato all’estrema dimora nel 1913.

Si era già fatto costruire la chiesetta sul colle, che conteneva la sua tomba. La leggenda vuole che sotto il letto tenesse una bara già molto tempo prima di morire e, di tanto in tanto, si calasse nel feretro controllando attentamente che le misure fossero sempre esatte.

Anche per i cani aveva dato disposizione che dopo la loro morte naturale dovessero essere sepolti accanto a lui. Il giorno dei suoi funerali i fedeli animali, accanto alla bara, guaivano con gemiti simili ad un accorato pianto e i vecchi raccontano che non volevano staccarsi, e che imperterriti lo accompagnarono fino alla sommità dei colle, rimanendo lassù soli anche quando tutti se ne erano andati.

E nelle notti scure d'inverno, narrano ancora gli avi, si sentiva la voce roca del conte "Nardin" ed i suoi cani che gli rispondevano, mentre la tramontana disperdeva i suoni sui colli.

Lo scoppio della prima guerra mondiale distrusse quel poco benessere che i manzanesi erano riusciti ad accaparrarsi con duro lavoro.

Il 23 maggio 1915 già stanziava a San Nicolò il Comando della Divisione dei 41' Fanteria che il ventiquattro partì per il fronte.

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Casa rurale di Sdricca di Sopra

In località Sdricca, il 29 luglio 1917,venne istituito il Corpo degli Arditi i cui partecipanti si sottoponevano a severi addestramenti. Durante un'esercitazione, per lo scoppio di alcune bombe a mano, morirono 40 uomini. Il corpo era formato da severi ufficiali, da mercenari, da qualche illuso, da ex detenuti ed era destinato soprattutto alla prima linea. Molte volte, questi facinorosi privi di scrupoli, in preda ai fumi dell'alcol, si riversavano in paese, seminando paura.

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Lapide che ricorda l'eroismo degli Arditi

Con la rotta di Caporetto, molti manzanesi, radunate le poche cose che avevano, cercarono di oltrepassare il Piave, lasciando le case deserte. Nell'intento riuscirono circa 200, gli altri dovettero desistere e ritornare sui loro passi, trovando le case completamente saccheggiate dagli austriaci affamati.

Anche la sede comunale si trasferì a Firenze e tuttora negli archivi, dall'invasione dei 1917 a tutto il 1918, mancano i

registri degli atti di nascita, di morte e di matrimonio. I dati relativi si trovano trascritti nell'anno 1923.

Durante il conflitto nel manzanese furono allestiti sette ospedali da campo completamente abbandonati dopo la disfatta, ed i feriti o malati furono assistiti solamente da qualche volontario.

Diversi manzanesi subirono l'internamento nei campi di concentramento e non tutti fecero ritorno.

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Casa forte di Sdricca di Sotto

Gli austriaci asportarono le campane di tutte le chiese e le canne degli organi.

A fine conflitto di nuovo tutti dovettero rimboccarsi le maniche e iniziare la lenta ripresa dell'economia paesana.

L'avvento dei fascismo, fin dall'inizio, lasciò triste ricordo di sé.

A Manzano, infatti, il giorno della festa di San Valentino del 1921, una squadra d'azione di Udine si mescolò alla gente che festeggiava e, venuta alle mani con un gruppo locale, sparò alcuni colpi di pistola, seminando il panico tra la folla: una giovane di San Lorenzo morì di paura. Fuggiti i facinorosi abbandonando il camion, questo fu ritrovato il giorno successivo completamente bruciato.

Nell'intento di evitare incidenti, durante le elezioni, i presunti sovversivi erano custoditi nella caserma dei carabinieri, allora di stanza a San Giovanni.

Molti furono i manzanesi richiamati alle armi per difendere i confini dell'impero, privando così le famiglie di braccia lavorative.

Ed ecco arrivare la seconda guerra mondiale, e il Comune di Manzano ne fu completamente coinvolto con i suoi morti, fucilazioni, delazioni, prigionieri, e la lotta di liberazione alla quale gli abitanti parteciparono attivamente; e, finalmente, si poté riprendere nuovamente speranza con la fine del doloroso conflitto, e riallacciare i fili spezzati del rinnovamento sociale e, tra mille ostacoli e con la pesante eredità lasciata dalla guerra, cercare di superare le difficoltà della rinascita e delle discordanti opinioni politiche.

Ma alla disputa subentrano i fatti, al di là dei principi e delle ideologie, e nella solida realtà del lavoro, della cooperazione, dell'emancipazione operaia, le fabbriche continuano a lavorare e ad offrire a tutti quel benessere che oggi abbiamo, augurandoci di non lasciarcelo mai sfuggire.